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Il MAESTRO NELLA PATRISTICA

E NELLA TRADIZIONE ECCLESIALE

(in particolare nel "De Magistro"
di S. Agostino e di S. Tommaso d’Aquino)

Atti del Seminario internazionale
su "Gesù, il Maestro"
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Franco Pierini ssp

 

6. Il basso medioevo (1250-1550)

6.1. Sguardo generale

Il I concilio di Lione, tenuto nel 1245, con la deposizione dell’imperatore Federico II da parte di Innocenzo IV, fu non solo il culmine di una lotta politica e ideologica senza esclusione di colpi ma anche la presa d’atto del fallimento della cosiddetta "cristianità" medievale. Non è necessario richiamare qui le varie tappe della degradazione che ne seguì: il papato si legò sempre più alla Francia e ne uscirono fuori la permanenza ad Avignone e poi lo scisma d’occidente con l’affermarsi delle teorie conciliariste; l’impero non riuscì più a ricuperare l’egemonia sull’Europa, e l’ultimo tentativo, quello di Carlo V, naufragherà davanti alla frantumazione politica e religiosa già inveterata; i rapporti fra le due parti del mondo cristiano, oriente e occidente, diventeranno sempre peggiori e falliranno tutti i tentativi di ricucire l’unità; falliranno i tentativi di ricuperare la Terra Santa e anche le prime iniziative missionarie al di là del mondo islamico; davanti all’aggressività musulmana, entreranno in crisi le conquiste economiche dell’alto medioevo e si aggiungeranno epidemie micidiali come la famosa "peste nera"; si manifesteranno agitazioni sociali sempre più frequenti e scompariranno le ultime strutture feudali.

È un quadro piuttosto catastrofico diventato leggendario col nome di "autunno del medioevo" (Huizinga), che non va esagerato, come spesso si fa (per es. ne Il nome della Rosa, il romanzo pseudo-storico di U. Eco), ma che non va neppure sottovalutato, soprattutto dal punto di vista religioso.

Fu infatti nel basso medioevo che, subito dopo i vertici segnati da Tommaso d’Aquino e Bonaventura da Bagnoregio, si andarono sviluppando le prime correnti disgregatrici della cultura, della sintesi scolastica affermatasi nel periodo precedente. Alla fine le università stesse si trovarono in crisi, superate culturalmente e pedagogicamente da due nuove istituzioni: i movimenti e le istituzioni a carattere devozionale, ascetico e mistico facenti parte, appunto, della "Devozione moderna", affermatasi soprattutto nell’Europa francese e tedesca; i movimenti e le istituzioni a carattere soprattutto culturale, tipici dell’umanesimo e del rinascimento, affermatisi in modo particolare, inizialmente, in Italia. Il "collegio" (collegia pietatis da una parte, collegia humanitatis dall’altra) è la nuova struttura destinata a formare la nuova classe dirigente europea.(45)

In campo teologico, ma soprattutto in campo filosofico, si passa dalla sintesi aristotelico-tomista a quella agostiniano-bonaventuriana, dal nominalismo moderato di Duns Scoto a quello radicale di Guglielmo Occam.

Paradossalmente, ma non tanto, quanto più il discorso filosofico-teologico perde consistenza, data l’eccessiva astrattezza e complessità dei suoi esiti, tanto più si impone, si fa strada il discorso cristologico. In questo senso, il basso medioevo è un’epoca di forte passione cristologica-antropologica-ecclesiologica.

In estrema sintesi: si passa dallo scarso interesse di Tommaso d’Aquino verso la cristologia (46) all’atteggiamento contrario di Bonaventura da Bagnoregio, che francescanamente dà al Cristo crocifisso il posto centrale.(47) Di qui si arriva a Duns Scoto che fa del Cristo l’alfa e l’omega di tutto (48) e ad Occam che considera pressoché eterna la dimensione teandrica.(49) Sempre sulla linea francescana, Dante Alighieri (50) e Caterina da Siena (51) giungono a immedesimare la propria esperienza storica e ideologica con Cristo stesso, mentre il mistico Meister Eckhart arriva a identificare Cristo con ogni uomo.(52)

Parallelamente, nell’oriente bizantino, l’esicasmo arriva alle conclusioni cristologiche più significative. Giunto, infatti, con l’insegnamento di Niceforo l’Atonita, nel corso del secolo XIII, ad una specie di "yoga cristiano" praticato soprattutto fra i monaci dell’Athos,(53) l’esicasmo riesce a superare tutti i suoi critici attraverso la difesa fattane da Gregorio Palamas (1296-1359). Egli, infatti, riesce a far valere il punto di vista secondo il quale la divinizzazione dell’uomo per opera della grazia o, come egli preferisce dire, "per energia divina", è qualitativamente la stessa compiutasi nell’umanità di Cristo. Ogni uomo può quindi imitare l’uomo-Cristo divinizzato. Dio, in Cristo-uomo, si fa veramente nostro Maestro interiore ed esteriore.(54)

Essendo questa l’atmosfera generale, si comprende bene il fenomeno del moltiplicarsi e diffondersi di trattazioni piccole e grandi sul tema dell’"imitazione di Cristo", cominciando dal primo, scritto da Bonaventura da Bagnoregio (Epistola de imitatione Christi),(55) fino alla più famosa Imitazione di Cristo, quella attribuita a Tommaso da Kempis (1380-1471), e comunque risalente al 1441 circa.(56)

Ora, la figura di Cristo Maestro, in quest’epoca di forte scolarizzazione a quasi tutti i livelli della società, in quest’epoca di scolarizzazione anche in intensa trasformazione, non è più il cavaliere del primo medioevo, non è più soltanto l’uomo, l’uomo-Dio di Bernardo di Clairvaux, o l’uomo storico, povero e sofferente, di Francesco d’Assisi: ora Cristo Maestro finisce per stare veramente dalla parte di ogni uomo, specialmente di ogni uomo in crisi alla ricerca di qualcosa, e diventa, per dir così, Cristo contestatore.

Questa figura di Cristo contestatore è presente in numerose esperienze individuali e collettive, ortodosse ed eterodosse (57) e approda a due testimonianze particolarmente significative: quella altamente drammatica di Girolamo Savonarola (1452-1498) e quella, considerata la più autorevole fra tutte, di Erasmo da Rotterdam (1466-1536). (torna al sommario)

6.2. Il "De Magistro" di Tommaso d’Aquino (1256-1259)

Non c’è da meravigliarsi che Tommaso abbia ripreso il discorso sul maestro e sul magistero, richiamandosi esplicitamente all’opera precedente di Agostino. Le due opere nascono, infatti, sulla base di esigenze e contesti culturali simili.

Sia l’epoca post-costantiniana (313-450), sia l’epoca del basso medioevo (1250-1500), furono periodi di intensa scolarizzazione cristiana, anche se, come si è accennato, con esiti e conseguenze diametralmente opposte, perché la scolarizzazione post-costantiniana portò il cristianesimo all’egemonia culturale, mentre quella bassomedievale avviò questa egemonia al declino. Ora, è naturale che i periodi di scolarizzazione siano quelli in cui più intensamente si rifletta sul maestro e sul magistero, e, in ambito cristiano, su quel Maestro particolare che è Cristo.

Tommaso d’Aquino riprese la riflessione agostiniana, tra il 1256 e il 1259, nella XI delle sue Quaestiones disputatae de veritate, tornandoci poi sopra, tra il 1266 e il 1273, in alcune parti della Summa theologiae (precisamente nella pars I, quest. 111, art. 1 e 3; quest. 117, art. 1; e nella pars II-II, quest. 181, art. 3). In questi testi non si verificano cambiamenti. Le idee di Tommaso rimangono le stesse. Ci limitiamo, perciò, a prendere in esame la questione disputata XI, De Magistro.(58)

Essa è articolata in quattro sottoquestioni:

  1. Se l’uomo possa ammaestrare e dirsi maestro o se ciò competa solamente a Dio;
  2. Se alcuno possa dirsi maestro di se stesso;
  3. Se l’uomo possa essere ammaestrato da un angelo;
  4. Se l’insegnare sia atto della vita contemplativa o della vita attiva.

I problemi che Tommaso d’Aquino si pone, le argomentazioni che sviluppa, le conclusioni che raggiunge sono chiaramente qualcosa di più e insieme qualcosa di meno in rapporto ai problemi, alle argomentazioni e alle conclusioni di Agostino. Tommaso affronta soprattutto la questione dell’unico maestro e quella della comunicazione didattica, scivola quasi del tutto sulla problematica della significazione che invece occupa buona parte del De Magistro di Agostino.

Circa la questione dell’unico maestro, Tommaso, facendo leva sulla dottrina aristotelica della potenza e dell’atto, delle cause prime e delle cause seconde, riconosce a Dio, al Verbo in particolare, la causalità principale in ogni forma di insegnamento, ma riconosce anche la caratteristica di causalità secondaria e strumentale al maestro umano. Correggendo inoltre la teoria platonico-agostiniana dell’illuminazione con la dottrina aristotelica dell’astrazione, vede nell’intelletto del discente l’opera dell’intelletto passivo e dell’intelletto attivo, ed è portato perciò a rivalutare il contributo dello stesso destinatario dell’insegnamento.

Circa la questione della comunicazione pedagogica, Tommaso riporta l’argomentazione agostiniana nei termini seguenti: «Qualora siano proposti dall’uomo i segni di alcune cose, colui al quale vengono proposti o conosce già le cose a cui i segni si riferiscono, o non le conosce. Se già le conosce, non si può dire che venga ammaestrato intorno ad esse; se poi non le conosce, ignorando le cose non potrà neppure conoscere il significato dei segni. (...) Se dunque l’uomo, attraverso l’insegnamento, non fa che proporre dei segni, pare che non possa ammaestrare un altro uomo».

A questo ragionamento egli risponde: «Si deve dire che le cose nelle quali siamo ammaestrati per mezzo dei segni sotto un certo aspetto le conosciamo e sotto un altro le ignoriamo. Se, per esempio, ci si vuole insegnare che cosa è l’uomo, è necessario che di lui sappiamo già qualche cosa, che abbiamo cioè un concetto di animale o quello di sostanza o almeno quello di ente, che non può esserci ignoto; e così quando ci si voglia spiegare qualche conclusione, è necessario che sappiamo già che cosa siano soggetto e predicato e che conosciamo altresì i principi per i quali la conclusione ci viene insegnata, poiché ogni insegnamento procede da una preesistente cognizione».

Tommaso, quindi, non ha affatto l’intenzione di contraddire le tesi fondamentali di Agostino; vuole solo articolarle meglio, strutturarle con maggiore precisione, completarle. E, sulla base della dottrina aristotelica della conoscenza, indubbiamente ci riesce.

Trascura però il problema più intimo della dottrina agostiniana del magistero e del maestro, cioè il problema della significazione. È infatti a questo livello che la dottrina pedagogica da astratta si fa concreta, da speculativa si fa esistenziale e storica.

Prima di comunicare la verità, infatti, bisogna raggiungerla. La significazione ci permette di arrivarci perché, se eseguita correttamente, mette in rapporto (in ogni momento del processo comunicativo) i tre elementi (significante, significato e referente), crea cioè la "adaequatio rei et intellectus". Ma tale rapporto di significazione, tale "adaequatio", se lo possiamo (ri)costruire, è perché esiste già, è già dato, è trascendente il nostro stesso operare categoriale. Esige quindi un’apertura totale, che in concreto, nella storicità, può anche non esserci. Per questo, Agostino scrive: «Colui che noi interpelliamo è colui che insegna, il Cristo di cui si è detto che abita nell’uomo interiore, ossia la Potenza immutabile e la Sapienza eterna di Dio. È essa che tutte le anime razionali interpellano, ma si apre a ciascuna nei limiti in cui può accoglierla secondo la propria buona o cattiva volontà. E, se talora l’anima sbaglia, non avviene per difetto della Verità interpellata, come non è per difetto della luce esterna che gli occhi corporali spesso ci ingannano».

Ammesso, dunque, che la verità esiste (se non esiste, non ha alcun senso cercarla, e ogni operazione conoscitiva, comunicativa e significante si chiude in se stessa), è evidente che essa trascende la significazione (il Maestro esteriore), ma è anche evidente che essa deve esservi immanente, almeno come possibilità (il Maestro interiore), alla quale aprirsi, di cui approfittare. E così, come si era già accennato, il triangolo della significazione (significante, significato, referente) si apre a comprendere in se stesso l’elemento "maestro interiore", si trasforma in quadrilatero, o, meglio, in circolo ermeneutico.

Dunque, si può concludere che l’analisi agostiniana sul maestro e sul magistero viene completata in certi punti dall’analisi tomista, ma non sostituita né superata.

Lo dimostra anche il fatto che il punto di vista agostiniano può essere riproposto, in quegli stessi anni, in maniera molto energica ed efficace da alcuni contributi di Bonaventura da Bagnoregio (1221-1274), risalenti al 1259 circa, e in particolare dal sermone Christus, unus omnium magister e dall’altro sermone De excellentia magisterii Christi.

Tutta la tradizione patristico-agostiniana, arricchita dai contributi della tradizione francescano-bonaventuriana, cistercense-bernardiana, certosina e della "Devozione moderna", oltre a quella umanistica, confluirà poi, alla fine dell’epoca bassomedievale, nell’opera di Erasmo da Rotterdam e soprattutto nelle sue due opere Enchiridion militis christiani (1501) ed Encomium moriae (1509).(59) (torna al sommario)

 

           Gesù Il Maestro, ieri, oggi e sempre

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