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IL MAESTRO IN SAN PAOLO

Atti del Seminario internazionale
su "Gesù, il Maestro"
(Ariccia, 14-24 ottobre 1996)

di Giovanni Helewa ocd

 

II. Paolo apostolo
alla scuola del Cristo crocifisso

3. Alla scuola del Crocifisso

b) Il primato della grazia e della fede

«O stolti Galati, chi mai vi ha ammaliati, proprio voi agli occhi dei quali fu rappresentato al vivo Gesù Cristo crocifisso» (Ga 3,1)? Lo sfogo rivela quanto e come soleva Paolo ricordare la croce di Gesù nella sua catechesi orale (vedi sopra). Viene anche detto un pensiero importante: è stupefacente che dei credenti che hanno avuto il privilegio di conoscere così bene il Cristo crocifisso, abbiano dato ascolto ad una predicazione estranea al vero ed unico vangelo (cf 1,6-9). Per essersi lasciati sedurre da tale stoltezza, devono avere subito un sortilegio!

Si è in piena crisi "giudaizzante" e Paolo corre ai ripari. Professare la necessità della circoncisione ai fini della salvezza e ritenere che si è giusti davanti a Dio per il fatto che si pratica la legge, significa essere diventati solidali di un regime incompatibile con la verità del vangelo e la novità di Cristo. La crisi si estendeva a macchie d’olio nelle diverse chiese e causava non poca ansietà a Paolo; tuttavia, ebbe senz’altro un riflesso benefico: portò l’Apostolo a dare ampio spazio in Ga e Rm al noto tema della giustificazione mediante la fede in Cristo Gesù, così come lo troviamo sintetizzato in Ga 2,16 e Rm 3,27-30. Il tema coinvolge molte categorie e si articola a diversi livelli; se ne coglie però la sostanza seguendo questa duplice linea convergente: il vangelo è iniziativa divina della salvezza rivolta universalmente ad una umanità di peccatori; il vangelo è iniziativa di grazia che tutti, Giudei o pagani, sono chiamati ad accogliere con fede. Proprio lungo queste due linee avvertiamo quanto fosse presente a Paolo e quanto pesasse nella sua catechesi il pensiero della croce di Gesù e della morte del Figlio di Dio.

«Forse Dio è Dio soltanto dei Giudei? Non lo è anche dei pagani? Certo, anche dei pagani!» (Rm 3,29). Tutti sono sotto la signoria dell’unico Dio (10,12). Ma questa signoria universale ed unificante di Dio, Paolo la contempla riflessa ed operante nel vangelo della redenzione che fa capo alla croce-morte di Cristo.

Bisogna partire da affermazioni come le seguenti: «Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture» (1Co 15,3); «ha dato se stesso per i nostri peccati» (Ga 1,4); «è stato messo a morte per i nostri peccati» (Rm 4,25); «mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (5,6); «ha dato se stesso per noi, per riscattarci da ogni iniquità» (Tt 2,14)... Stiamo ascoltando una parte essenziale del kerigma apostolico (cf 1Co 15,11), quella parte che più direttamente evidenzia alla fede il mistero del grande amore (vedi sopra).

Ma che significa anzitutto il fatto che sulla croce Cristo Gesù ha dato se stesso ed è morto «per i nostri peccati»? Appena si pensa che in quel momento e in quel modo era il Figlio stesso di Dio ad offrire se stesso secondo la volontà del Padre che l’ha inviato, s’intuisce una verità insieme elementare e fondamentale: alle parole «per i nostri peccati» va riconosciuta un’ampiezza universale. Non può non essere «morto per tutti» (2Co 5,14.15), «in riscatto per tutti» (1Tm 2,5-6), colui che è stato inviato nel mondo come l’unico mediatore fra Dio e gli uomini. Era quindi per i peccati di tutti che moriva Gesù sulla croce, epifania salvante del grande amore di Dio. Ed ecco pertanto emergere nella mente di Paolo, quale specifica rivelazione evangelica, la verità indiscutibile di una peccaminosità universale. Come «non c’è distinzione fra Giudeo e Greco, dato che (Dio) è il Signore di tutti» (Rm 10,12), così «non c’è distinzione» ad un altro livello: «tutti hanno peccato» (Rm 3,22.23), «Giudei e Greci, tutti, sono sotto il peccato» (3,9) – e come tali sono interpellati dal vangelo della redenzione. L’ombra della croce ha cancellato ogni distinzione e la luce del vangelo dichiara peccatori tutti e ciascuno.

«Tutti sono sotto il peccato»: l’affermazione non è sorgiva ma consequenziale. Paolo non parte da questa certezza per concludere che Cristo è morto per tutti. Il predicatore del vangelo compie un movimento contrario: è la verità del Cristo-Figlio morto per il peccato di tutti, verità insita al vangelo rivelatogli e continuamente da lui meditata, a dargli la certezza che tutti sono peccatori e bisognosi della redenzione divina. Non solo. Nel vangelo e nella contemplazione del Crocifisso Paolo coglie un’altra verità: la gravità del peccato stesso e la miseria di quell’umanità che sul Calvario è stata tanto amata – una miseria che soltanto la potenza di Dio, del Dio «che dà vita ai morti», è capace di sanare (cf Rm 4,17; Ef 2,5).

Come spiegare altrimenti la dignità divina della vittima (Rm 5,10) e il trascendente prezzo del sangue versato (Ef 1,7; cf 1Co 6,20; 7,23; anche At 20,28; Eb 9,12.14; 1Pt 1,18-19; Ap 1,5; 5,9)? «Non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32): non è pensabile che una donazione tanto costosa fosse finalizzata ad un bene che l’uomo potrebbe conseguire con le proprie forze o ricevere da Dio come un merito che si sarebbe guadagnato. Soprattutto nella luce evangelica della croce emerge l’evidenza di queste parole: «Chi ha dato a Dio qualcosa per primo, sì che abbia a riceverne il contraccambio?» (Rm 11,35; cf 4,4-5). In particolare, la croce insegna a Paolo che non esiste e non è mai esistito l’uomo contemplato nella dottrina giudaizzante, l’uomo cioè che possa inseguire «una sua giustizia derivante dalla legge» (cf Fl 3,9) e basata quindi sul sistema delle opere e del merito. Un tale uomo non sarebbe quel peccatore che è tanto bisognoso di redenzione e per il quale è morto il Figlio di Dio. La giustizia è possibile, certo; anzi è offerta a tutti nel vangelo universale della salvezza (cf Rm 1,16); ma è solamente quella che un peccatore riceve da Dio quale puro dono di grazia, precisamente «in virtù della redenzione che è stata operata in Cristo Gesù» (Rm 3,24). «Giustificati per il suo sangue... riconciliati con Dio per mezzo della morte del Figlio suo» (5,9.10): o ci si apre a questa verità, o ci si esclude dalla grazia di Cristo (Ga 5,2-4).

È quindi affare di grazia – e di una grazia predisposta misericordiosamente da Dio nel mistero «del grande amore con il quale ci ha amati» (Ef 2,4ss), di quella agápe cioè che splende grande oltre ogni misura nella morte del Cristo-Figlio per tutti noi. Comprendiamo adesso lo sfogo incredulo di Paolo in Ga 3,1: vi ho ammaestrati nelle cose della croce e osate adesso deviare dalla norma della grazia? Comprendiamo pure la dichiarazione fatta subito prima: «Non annullo la grazia di Dio; infatti se la giustizia viene dalla legge, allora Cristo è morto per niente» (2,21). Se è vero che «Cristo è morto per i nostri peccati», come recita il kerigma fondamentale, deve essere allora vero che si esce dalla condizione di peccato solamente in virtù di quella morte, cioè per puro dono di grazia. Pretendere perciò che la "giustizia", il non-essere-peccatori ma graditi a Dio, si ottiene invece con le opere della legge, a modo di ricompensa, significa svuotare la grazia di Dio di ogni consistenza. Non solo, ma sarebbe come dire a Dio, con il vanto della autosufficienza umana, la parola che più ferisce il suo cuore: non ho bisogno della redenzione per la quale il tuo Cristo ha versato il suo sangue; per quanto mi riguarda, il tuo Figlio è morto inutilmente.

«Morto per i nostri peccati» (Rm 4,25) – «morto per tutti» (2Co 5,15) – «tutti hanno peccato» (Rm 3,23; 3,9) – tutti sono «giustificati per il suo sangue» (5,9) – «giustificati per la sua grazia» (3,24; Tt 3,7) – «giustificati per la fede» (Ga 2,16; Rm 3,26.28; 5,1; ecc.): una linea omogenea che parte dalla croce e porta al decisivo binomio grazia-fede. Al vangelo divino della grazia si risponde e ci si apre con l’amen della fede. È l’atto giusto e la disposizione che piace a Dio, perché è un «dare gloria a Dio» così come si è degnato di rivelarsi in Cristo Gesù (cf Rm 4,20; 11,36), un rendere omaggio alla potenza e ricchezza del suo amore, un confessare con la prontezza del cuore che Cristo non è morto inutilmente (cf Ga 2,21).

Il discorso paolino sulla fede si dirama in molte direzioni; ma la linea principale corre lungo il binario cháris-pístis. In particolare, è questa la linea che l’Apostolo evidenzia nella lotta contro la deviazione giudaizzante: se è per grazia che l’uomo è giustificato, allora la giustizia viene dalla fede; e ciò vale per tutti, Greci o Giudei, circoncisi o incirconcisi (Rm 3,30). È questione di verità e di quella verità che il discepolo della croce non smette di contemplare sul volto di colui che «ci ha amati e ha dato se stesso per noi». (torna al sommario)

c) Una sapienza e una potenza degne di Dio

L’intransigenza con cui Paolo ha combattuto le infiltrazioni giudaizzanti rifletteva soprattutto l’ansia con cui difendeva la verità-novità del vangelo che aveva ricevuto «per rivelazione di Gesù Cristo» (Ga 1,12). Ma un’altra preoccupazione condizionava pure la sua lotta contro i fautori del legalismo giudaico e delle osservanze mosaiche: quella di vedere il vangelo ostacolato nel mondo delle genti – un mondo separato da quello giudaico da steccati di cultura, di religione e di storia, e che avrebbe sicuramente rifiutato un messaggio appesantito da categorie mentali tipiche di un popolo solo e da pratiche tanto aliene come, ad esempio, la circoncisione. Già l’"obbedienza della fede" (Rm 1,5) richiedeva una conversione a Dio che avrebbe sconvolto le esistenze e sradicato dai cuori un paganesimo che era un sistema di vita e la norma indiscussa della società (cf 1Ts 1,9-10). Aggiungere un’altra difficoltà, come appunto quella di un vivere giudaizzato, sarebbe stato simile ad un tentare Dio. A parte ogni considerazione di sostanza, «costringere i pagani a vivere alla maniera dei Giudei» (Ga 2,14) avrebbe oscurato l’universalismo del messaggio e, in pratica, reso fallimentare in partenza la predicazione apostolica. (torna al sommario)

«Mi sono fatto tutto a tutti»

«Ha rivelato in me il suo Figlio perché lo predicassi in mezzo alle genti» (Ga 1,16). Una delle certezze di Paolo è proprio questa: la sua missione è presso le genti (Rm 1,1.5; 11,13; 15,16; 16,26; Ga 2,7-8; Col 1,25-27; Ef 3,8; 1Tm 2,7...). È nel mondo sterminato dei pagani che il vangelo deve penetrare e germogliare perché diventi effettivamente quella salvezza universale che è predisposta dall’unico Dio per mezzo dell’unico Mediatore (cf 1Tm 2,4-5); e di tale disegno divino Paolo è convinto di essere il ministro e il collaboratore. Ciò presuppone che nella sua coscienza apostolica andavano maturando, sin dai primi tempi, una sicurezza ed una sfida: la sua stessa chiamata ad "apostolo delle genti" lo confortava nell’idea che il vangelo era davvero proponibile ai pagani e che questi l’avrebbero accolto con obbedienza di fede; quanto alla sfida, egli era abbastanza accorto per capire che di fronte a sé stava il compito di amministrare una parola che fosse fedele alla verità ed insieme capace di trasmettere la verità al mondo delle genti. Certo, poteva sempre dire a se stesso: «Tutto posso in colui che mi dà la forza» (Fl 4,13; cf 1Co 15,10; Col 1,29; Rm 15,18-19). Rimaneva però il fatto che il vangelo era segnato da premesse israelitiche non certo contingenti e che la verità da trasmettere coincideva oggettivamente con la vicenda storica e giudaica e palestinese di Gesù di Nazaret. Paolo deve avere presto intuito quanto fosse necessaria una predicazione che sapesse diffondere il vangelo vero separandolo da un involucro che l’avrebbe appesantito inutilmente o addirittura reso inesprimibile presso le genti.

Diciamo che sotto questo aspetto squisitamente missionario Dio ha scelto in Paolo un ministro adatto. La sua personalità per così dire cosmopolita lo preparava a quella operazione che avrebbe trapiantato il vangelo, senza tradirlo minimamente ma anzi esaltandone la grandezza e ricchezza, dal suo originario terreno giudaico-palestinese a quello ancora incolto del mondo pagano – quella operazione appunto per cui l’Apostolo è stato realmente il «maestro delle genti nella fede e nella verità» (1Tm 2,7).

Anzitutto, la sua identità giudaica (2Co 11,22; Fl 3,5-6; Rm 9,3; 11,1; Ga 1,14; cf At 22,3; 26,4-5). Soltanto un giudeo come Paolo, che è stato educato ad ottima scuola rabbinica ed era un profondo conoscitore della Bibbia, che era vissuto come un fedele osservante della legge ed un geloso difensore della tradizione dei padri, poteva intuire la continuità di una storia di salvezza giunta alla sua pienezza ed insieme cogliere la novità gloriosa del vangelo a lui rivelato. L’unità di un nuovo ed universale popolo di Dio dove non c’è più né Giudeo né Greco, l’importanza solamente relativa della legge, il superamento della circoncisione, la superiorità della nuova alleanza, il primato storico di Israele visto nella luce di una grazia divina offerta a chiunque crede – un insieme di verità che non sono estranee alla verità globale del vangelo e che la catechesi cristiana non può ignorare –, soltanto un Giudeo verace e geniale come Paolo poteva cogliere in profondità ed ospitare nella sua coscienza di "apostolo delle genti". In particolare, la sua identità giudaica permetteva a Paolo di separare, all’interno del grande patrimonio israelitico, gli elementi sempre ed ovunque validi da quelli che sono segnati da caducità etnica e temporale e che sarebbero stati d’intralcio alla predicazione evangelica in mezzo alle genti. «Tutto io faccio per il vangelo» (1Co 9,23): la parola riguarda anche la potatura che Paolo riteneva di dovere compiere sull’albero israelitico perché dalla radice santa potessero spuntare i rami santi di un popolo di credenti uno ed universale (Rm 11,16-24).

«Pur essendo libero da tutti, mi sono fatto servo di tutti per guadagnare il maggior numero: mi son fatto giudeo con i Giudei, per guadagnare i Giudei... Con coloro che non hanno legge sono diventato come uno che è senza legge... per guadagnare coloro che sono senza legge» (1Co 9,19-21). Non solo non è lecito costringere i pagani a giudaizzare (cf Ga 2,14), ma l’Apostolo comprende quanto sia doveroso avvicinare quella umanità con un comportamento il più possibile solidale, a livello sociale e culturale ed anche psicologico. È un servire tutti servendo il vangelo, con l’umiltà e la fierezza di chi si identifica con il vangelo che deve predicare (1Co 9,16-17). E bisogna riconoscere che Paolo aveva i mezzi per attuare questo suo approccio missionario. «Io sono un giudeo di Tarso di Cilicia, cittadino di una città non insignificante» (At 21,39; cf 9,11; 22,3). Accanto alla sua identità giudaica, che rimane la più determinante, ecco un altro tratto della sua personalità, per nulla trascurabile: appartiene alla diaspora greca, è di estrazione urbana, è capace di stare a suo agio nel mondo ellenizzato del bacino orientale del Mediterraneo. S’inserirà ben presto e con naturalezza nel cristianesimo di marca giudeo-ellenista delle città di Damasco, di Tarso e soprattutto di Antiochia di Siria. Del resto, questo semita ha anche una buona cultura greca, anche se non introdotto in alcuna particolare corrente di pensiero; ed usa correntemente, come una seconda lingua materna, il greco del suo tempo, che è quello della koiné distinta. Non è certo un contadino o un pescatore della Galilea; e il suo genio è più che sufficiente perché acquisti con la pratica un linguaggio atto a trasmettere il vangelo, di città in città, all’orecchio delle genti che incontra.

Leggiamo le sue Lettere come un patrimonio nostro e cogliamo la sua formulazione come un’espressione normativa della nostra fede; ma dobbiamo ricordare che a monte sta il lavoro di un apostolo che ha saputo mettere a profitto, per il vangelo, le sue doti d’intelletto e la sua preparazione socio-culturale. Quello che leggiamo e cogliamo è in realtà il frutto di una semina tenacemente operata, dove tutto un mondo, quello greco-romano dei gentili, si vide interpellato dal messaggio evangelico come da una parola che poteva ascoltare. L’impresa ci pare scontata; ma fu quella di un Paolo dalle ambizioni immense, che ha lavorato più di tutti gli altri (1Co 15,10; cf 2Co 11,5.23ss), mosso da una convinzione che ha saputo concretizzare in modo vincente: non sta ai pagani di confluire a Gerusalemme, ma è compito di Gerusalemme farsi missionaria, uscire dal proprio ambiente, andare verso i pagani e piantare il vangelo nella cultura delle genti, introdurre il lievito della verità nella pasta del mondo pagano sicché diventi pane gradito a Dio. Quella che oggi chiamiamo inculturazione, Paolo l’ha praticata per primo e con risultati stupefacenti; e l’ha fatto con la consapevolezza di un eletto-chiamato sicuro d’interpretare così il mandato ricevuto e di servire in tale modo il vangelo affidatogli. «Mi sono fatto tutto a tutti...» (1Co 9,22).

La storia paolina puntualizza la progressione dell’impresa. Un primo periodo, di almeno 11 anni e conosciuto come il periodo antiocheno (cf Ga 1,21-24; At 9,30; 11,25-26; cc. 13-14), diede a Paolo d’inserirsi in una cristianità dove già si predicava il vangelo ai Greci (At 11,19-26), di riavvicinarsi ad una cultura che già conosceva, di farsi con l’aiuto di Barnaba un metodo missionario, di acquistare un linguaggio adatto, di comprendere quanto fosse tenace e profondamente antievangelica e dannosa la tendenza d’imporre ai Gentili criteri giudaizzanti (cf Ga 2,11-14). Il periodo termina nel 49 con la salita a Gerusalemme e la partecipazione al concilio apostolico, dove viene sancito che la legge giudaica non obbliga i cristiani convertiti dal paganesimo (At 15; Ga 2,3-6) e dove la missione stessa di Paolo presso le genti riceve un riconoscimento ufficiale (Ga 2,7-9).

Il ritorno ad Antiochia vede un Paolo sicuro di «non avere corso invano» (Ga 2,2), pronto a liberarsi dalla tutela di Barnaba, ansioso di mettersi in viaggio (At 15,36-40), in possesso delle certezze e dei mezzi che lo renderanno grande. Inizia così, nel segno di una maturità apostolica cresciuta, il periodo forse più fecondo dell’opera paolina, quello che ricopre gli anni 50-58 e che coincide con il secondo e terzo viaggio missionario (At 15,36-18,22; 18,23-21,17). Fino ad allora, Paolo si è mosso attorno ad Antiochia, in un cerchio piuttosto ristretto dell’Asia Minore, con una puntatina a Cipro. Le strade dell’evangelizzazione lo portano adesso verso Occidente, sempre più lontano dall’angolo nord-orientale del Mediterraneo. Ed ecco capitare un fatto di considerevole importanza: a Troade appare a Paolo in visione un Macedone che lo supplica: «Passa in Macedonia ed aiutaci!» (At 16,6-10). Ritenendo di essere chiamato da Dio, Paolo salpa da Troade lasciando per la prima volta le terre dell’Asia, attraversa l’Egeo e sbarca appunto in Macedonia per «annunziarvi la parola del Signore» (16,10ss). Non è una tappa come le altre. Si è ormai in Europa e alle porte della Grecia, la patria della civiltà nella quale Paolo di Tarso già depositava il seme del vangelo. Infatti, fondate le chiese di Filippi e di Tessalonica e predicata la parola a Berea, Paolo viene scortato dai nuovi credenti fino ad Atene (At 16,11-17,15).

Una cosa è certa: per l’autore del Libro degli Atti come indubbiamente per Paolo stesso, annunziare il vangelo nel centro spirituale dell’ellenismo pagano significava che l’apostolo cristiano compiva un salto di qualità prevedibilmente fecondo di conseguenze simboliche e pratiche. Non è lo stesso interpellare l’ellenismo nelle zone piuttosto periferiche dell’Asia e portare invece il vangelo nel cuore storico e culturale di quel mondo! Il racconto di At 17,16-34 è redatto con cura e riflette quella che Paolo deve avere sentito come una sfida giunta ormai al culmine. Egli «fremeva nel suo spirito al vedere la città piena di idoli... discuteva nella sinagoga... e ogni giorno sulla piazza principale con quelli che incontrava; anche certi filosofi epicurei e stoici discutevano con lui...». Ma la città è smaliziata, troppo abituata ai parlatori che vengono da Oriente: lo presero per ciarlatano; ed alcuni, al sentirlo «annunziare Gesù e la risurrezione», pensarono che predicasse due divinità straniere, per l’appunto la dea Anastasi e un suo consorte chiamato Gesù (vv. 16-21)!

L’esperienza ateniese si decide sull’Areòpago – e in un modo che fa comprendere all’Apostolo delle genti di avere ancora qualcosa da imparare. Il discorso infatti che vi tiene è interessante e per il contenuto e per l’esito che sortisce (vv. 22ss). Cerca d’innestare l’annunzio del vangelo in quello del vero Dio; e d’innestare l’annunzio del vero Dio nello strato stesso di una cultura che lo ignora ma che ha i mezzi per cercarlo e trovarlo – mezzi donati all’uomo dallo stesso Dio che tutto e tutti ha creato ed è vicino ad ognuno. Non sta quindi annunziando una divinità straniera, ma il Dio di cui ciascuno porta l’immagine, come anche qualcuno dei loro poeti ha già intuito (vv. 22-30). Le idee non sono originali, ma s’ispirano agli schemi abituali della propaganda monoteistica praticata dal giudaismo ellenistico. Se non altro, il discorso ci rivela un Paolo attento alle istanze di una cultura da rigenerare ed intento a portare i pagani ad interrogarsi sulla stessa loro religiosità.

Il discorso termina con un invito alla conversione, in vista di «un giorno nel quale Dio dovrà giudicare la terra con giustizia per mezzo di un uomo che egli ha designato, dandone a tutti prova sicura col risuscitarlo da morte» (vv. 31-32). Certo, la sostanza pasquale del vangelo è implicita nelle parole; ma la formulazione è stranamente sbiadita e priva di mordente. L’intero discorso poi evidenzia uno squilibrio tematico che privilegia una generica proposta monoteistica a scapito della verità specificamente cristiana. Comunque, il fallimento di Paolo fu quasi totale: «Quando sentirono parlare di risurrezione di morti, alcuni lo deridevano, altri dissero: "Ti sentiremo su questo un’altra volta"» (v. 32).

Paolo non era un principiante, avendo già portato il vangelo in molte località dell’ellenismo, sia in Asia che in Europa. Che cosa non ha funzionato questa volta, e proprio ad Atene, dove un successo sarebbe stato un coronamento ed insieme una promessa di grandi risultati? Ha sbagliato metodo? Non ha interpellato le persone giuste? Non era ancora sufficientemente inserito nella società che doveva evangelizzare? Queste ed altre domande dovevano agitarsi nella sua mente quando, lasciata Atene, si mise in cammino verso la metropoli vicina di Corinto. (torna al sommario)

Segue: Paolo apostolo alla scuola del Cristo crocifisso - 3 -

 

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